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Nei panni di mia moglie

"Nei panni di mia moglie" pubblicato da Editrice Nuovi Autori

Imago mortis - un'esca per la regina nera

"IMMAGO MORTIS- un'esca per la regina nera" pubblicato da Il Filo


Un'attesa snervante

di Andrea Saviano
Racconto finalista a "ABiCiZeta" 2008


Da cinque anni cercavamo un bambino senza alcun risultato, ma il mio corpo di donna ormai batte i rintocchi come una campana a morto da quando ho scoperto che la causa di tutto ciò è l'infertilità di mio marito. Mi sono sentita tradita e, ora che so che non potrò avere figli, la sessualità ha perso qualsiasi interesse per me. Dopo tanti rapporti mirati, dopo tante delusioni, mi sembra che non abbia più senso stare con mio marito. Il sogno che prima di sposarci ci aveva unito era stato quello di una famiglia, non sapevamo invece che ci attendeva il nulla.

Così cominciava una lettera su una rivista femminile. Le iniziali erano le medesime di mia moglie. La rivista era sul suo comodino.

Se a questo ci aggiungevo il fatto che solo un paio di settimane prima sul mio di comodino c'era un terzo referto negativo di uno spermiogramma, l'equazione sembrava di quelle semplici: 1+1=2, senza alcuna speranza che quella somma avrebbe mai potuto fare 3.

Per comprendere le problematiche, più o meno complesse, messe in movimento da una diagnosi di infertilità, è necessario aver vissuto queste cose dall'interno. Solo così si può comprendere quali siano state le motivazioni che hanno indotto a suo tempo due persone a formare una coppia. Perché è evidente che questa problematica può insorgere solo all'interno di una coppia, stabile (dove con stabile intendo non solo il matrimonio, ma anche la convivenza) o transitoria che sia.

All'inizio c'era stato il desiderio, poi la speranza, quindi il dubbio. Ora, avevamo oltrepassato tutte le complesse dinamiche relative al dubbio, ormai eravamo transitati nella fase della certezza di un'impossibilità a procreare. Il percorso che avevamo dovuto compiere, era stato lungo e faticoso, sicuramente stressante.

In genere ciò che porta due persone a diventare una coppia è una serie di processi fondamentali come quelli della sicurezza, del riconoscimento, dei bisogni, dei desideri reciproci, a volte anche l'aspetto narcisistico insito nel desiderio d'immortalità, perché è innegabile che nel desiderio di procreare si nasconde anche questo aspetto della natura umana. Dall'altro lato, quello dell'accoglienza di un figlio, la capacità di creare, la cosa che fa assomigliare di più l'essere umano a Dio.

Così, quando ti accorgi che questa “immortalità” e questa “divinità” per te non sono state previste, anzi e senza mezzi termini è un diritto che persino ad altri “indegni” è concesso, ma a te è stato negato, hai la chiara percezione di essere quello “sbagliato” dei due e il tuo corpo comincia a non piacerti più, ti sembra arido e inutile, anche se è un corpo che può ancora regalare alla tua lei (o al tuo lui) il piacere dell'intimità e della dolcezza.

Se consideriamo la lei o il lui di turno come l'oggetto/soggetto dell'amore, questo deve corrispondere non solo alle dinamiche inconsce del passato, ma anche a quelle del presente, come possibilità di soddisfare i bisogni e i desideri dell'altro per costituire un rafforzamento del proprio Io (come controparte) e del proprio Noi (come coppia). È forse giusto sacrificare ad un desiderio infranto, la realtà di un rapporto affettivo che forse proprio per le difficoltà affrontate dovrebbe essere oggi più forte e profondo?

« Datti il tempo per accettare questa forzata rinuncia, » mi ripeto, ma come faccio a non trascurare l'importanza del legame con la persona che rischio ora di perdere? Sono forse venuti meno i presupposti della scelta originaria? Cos'è successo, cosa può essere accaduto per rendere i nostri meccanismi difensivi di coppia così insufficienti? Cos'è stato a far maturare questa decisione in mia moglie, l'incapacità di sopportare un avvenimento negativo?

La mia sterilità era forse come una perdita dovuta a un lutto, un problema economico o un altro di quei motivi che possono mettere in crisi la coppia? La risposta, in base a quella lettera sul periodico pareva essere inevitabilmente e drammaticamente: sì.

Cosa aveva reso la nostra coppia asimmetrica?

Indubbiamente, molto spesso la progettualità fondante la coppia – più o meno inconsciamente – può essere non tanto il desiderio, quanto la necessità di avere un figlio. Quindi, scoprire l'impossibilità di realizzare questa necessità, mette inevitabilmente in crisi la dinamica della coppia.

Tuttavia, quello che aveva trasformato questo problema in un conflitto era indubbiamente il fatto accertato che non era più un “nostro” problema, ma era diventato solo un “mio” problema.

Rilessi quelle due iniziali.

La conferma della mia infertilità non era più vissuta da parte mia come un problema più o meno doloroso, ma s'era trasformata rapidamente in un conflitto interiore vissuto quasi come una fobia: l'inconscia percezione di un “invisibile rivale”.

Ripensai a tutti i controlli ai quali entrambi c'eravamo sottoposti. Con molta serietà. Una serie infinita di ricerche: sempre comunque con la speranza che il “problema” fosse risolvibile. Questo era il messaggio positivo che i medici ci avevano sempre trasmesso. Invece, ecco accertata con sicurezza la mia infertilità e, con essa, era emersa rapida la conflittualità latente. Un po' come quei popoli che dopo aver convissuto per secoli, si dichiarano guerra solo perché nel parlare uno usa la S dove l'altro usa la Z.

Da parte mia la degenerazione è stata di tipo depressivo. Lentamente ha portato la mia autostima, di già a livello piuttosto basso, ben peggio che sotto i tacchi. Il tutto è cominciato con uno strano senso di colpa per aver deluso con la mia infertilità le aspettative di mia moglie. Una reazione d'auto-colpevolizzazione simile, credo, alla situazione frequente che vivono le donne che hanno avuto un aborto nei confronti del loro compagno.

Di recente m'ero ritrovato a sentirmi colpevole d'aver tenuto nascosto qualcosa di cui, però, non ero nemmeno a conoscenza e, stando a quanto avevo letto (perché si finisce per diventare ipocondriaci e a leggere oltremodo articoli medici a tema), oltre alla mia colpevolizzazione c'era il percepirmi come insufficiente e deludente.

Non c'erano solo le iniziali ad alimentare il sospetto che si trattasse di mia moglie, c'era stato anche il suo progressivo distacco e disinteresse sia sul piano affettivo che sessuale. Un comportamento che aveva acuito la mia sensazione di fallimento.

A dire il vero, avevo anche sollevato l'ipotesi di adottare un figlio, ma non era cambiato nulla, anzi la situazione s'era aggravata. Toccando quel tasto, la ferita, da una parte vissuta e dall'altra subita, s'era acutizzata e la reciproca ostilità era aumentata.

Eppure lei per me era ancora la cosa più importante al modo, solo che non riuscivo più a credere d'essere altrettanto per lei. Inoltre, non trovavo più le parole giuste e nemmeno i gesti per comunicare sul piano affettivo con lei.

Adesso, dinanzi a quella rivista aperta, immobile davanti a quella pagina, posto di fronte a quelle due iniziali, potevo solo constatare che lei sempre puntuale e precisa non era ancora tornata a casa, stranamente. Che, come suo solito, non m'aveva chiamato per avvisarmi che tardava. Che, probabilmente, molto probabilmente, aveva deciso d'andarsene, d'abbandonarmi, di lasciarmi al mio destino.

Chiusi gli occhi sentendo che il cuore sprofondava fino a pulsare lì dove ho gli intestini. Cercai di piangere, forzando la mia virilità offesa e ferita dalla sterilità che, per rivalsa, cercava di rifarsi con il non dare manifestazione alcuna allo stato di fragilità in cui versavo.

Che ne sarebbe stato di me senza di lei? La vita continua, continua anche dopo i più tremendi distacchi dalle persone che amiamo o che ci hanno amati!

Dov'era finita la mia tempra di maschio? Risiedeva tutta, forse, nei miei spermatozoi? Lo scrocchio della serratura mi strappò dall'avvilimento in cui versavo. Poteva essere solo lei, perché solo lei aveva le chiavi di casa. Sì, di sicuro era lei!

Reso fiacco dalle mie debolezze, rimasi immobile in una silenziosa attesa.

La sentii entrare, chiudere la porta, camminare lungo il corridoio. Infine, la vidi apparire lì, in quella stanza in cui, senza lacrime e singhiozzi, avevo virilmente pianto la paura di un suo abbandono.

Lei indossava il solito impermeabile eppure c'era qualcosa di strano. Lo notavo, senza però cogliere il particolare. « Scusa caro, mi sono fermata a fare un paio di compere » mi bacia sulla guancia e non sulla bocca, « e non mi sono resa conto dell'orario. »

Avverte la mia rigidità e la mia incapacità a sorridere e abbracciarla. Lo sguardo le si posa per un attimo dove è immobile il mio: la rivista, l'articolo, le due iniziali.

Mi accarezza una guancia, mi bacia e mi rassicura: « Non sono io. »

Non rispondo perché non so cosa dire e, al tempo stesso, avrei tante cose da dire che mi diventa difficile mettere in ordine i miei pensieri, così dalle mie labbra esce una frase stupida e scontata: « Ti amo. »

« Mi sono fermata a comprare questo per te. Volevo farti, da stupida, una sorpresa, così l'ho indossato. »

Lascia sfilare l'impermeabile e sotto indossa solamente un negligè.

La contemplo, nuovamente innamorato e sento qualcosa d'umido rigare la mia guancia. Lì, dove il dolore non era riuscito a scalfire la mia virilità, c'è invece riuscita la gioia, perché senza di lei mi sentivo perduto, un attimo dopo, invece, mi ritrovo nuovamente perduto in lei.

« Vorrei tanto dormire amore, non chiedo altro, mi basterebbe solo dormire, di nuovo, dopo tanto tempo, » disse. « Una volta ero un apprezzato professionista, non un poeta o uno scrittore, tutt'altro! Una volta, oltre ad essere un marito fedele e un padre amorevole, ero anche un tecnico stimato e autorevole. »

Tutto questo fino a quel giorno, fino a quel maledetto giorno.

Da quel 24 Dicembre non riuscì più a dormire la notte e, tutto questo, cominciò a pesare sulla sua professionalità e capacità di concentrazione, in un solo termine: sul lavoro. L'inizio della discesa, perché ci sono poche e fredde regole nella vita, una di queste è che l'economia non aspetta nemmeno i migliori.

Così, a più di quarant'anni, s'era ritrovato senza lavoro. I vari tentativi di risalire la china erano andati tutti a vuoto. Una discesa professionale che non ebbe più fine e che sostituì alla parola lavoro, la locuzione: riuscire a vivere alla meno-peggio, a forza di sacrifici. In conseguenza di ciò, la sua graduale chiusura al mondo, agli amici e ai familiari. La depressione e il rifiuto dell'aiuto degli altri, infine la rinuncia ad andare avanti nella vita, a lottare... in fondo per chi, per cosa?

Ogni mattina s'alzava ricordandosi di ispirare ed espirare, attendendo solo il giorno in cui non avrebbe più dovuto rammentarsi di ciò. Sul pezzo di carta che teneva tra le mani aveva scritto una favola, una di quelle che raccontava al figlio. La metteva su carta prima che il tempo ne cancellasse il ricordo.

Nelle orecchie, mentre consonanti e vocali componevano parole che un tempo erano uscite dalle proprie labbra, sentiva ancora le risate argentine del piccolo. Storie che mutavano trama seguendo la richiesta d'introdurre questo o quel personaggio. Due manine strette al suo corpo. I soffici capelli tra le dita. Le labbra, morbide ed umide, a baciargli le guance o la fronte mentre pronunciava le parole: « Ti voglio bene, papà! » Quindi, un leggero tonfo e il rumore di piedini sul pavimento ad indicare che il suo piccolo uomo si stava dirigendo verso il proprio lettino. Era una regola. La frase “e vissero tutti felici e contenti” segnalava che era ora di dormire e non c'era la possibilità di spendere altro tempo nel lettone con mamma e papà, perché la mattina una “sveglia birichina” avrebbe trillato avvisando che i bambini bravi dovevano andare a scuola e i loro genitori al lavoro.

Prima che regnasse il silenzio, una vocina, proveniente dall'altra stanza, avrebbe sommessamente recitato la preghiera dell'angelo, mentre un seno morbido e sensuale si sarebbe posato sulla sua schiena mischiando amor sacro e amor profano. A quel punto, come ogni notte, la voce della moglie gli avrebbe sussurrato in un orecchio: « Ti amo, » due braccia gli avrebbero cinto la vita e due mani si sarebbero strette al torace, permettendo alle dita di accarezzarglielo.

A quel punto, lui si sarebbe voltato per scambiare con lei un bacio di “vero amore” e, qualche minuto più tardi, quando il sommesso russare del figlio li avesse avvertiti che già dormiva, lui si sarebbe perduto in lei, come già altre volte era accaduto dal giorno del loro matrimonio.

Una goccia percorse lenta la sua guancia, rigandola. Non era una lacrima, avevo smesso di piangere tanti anni fa, durante una notte di Natale, quando ogni sua lacrima era stata prosciugata dal dolore. Cominciava semplicemente a piovere e quel riparo improvvisato non era idoneo a proteggerlo da un acquazzone.

Arrotolò la vecchia coperta dentro la quale, un attimo, s'era avvolto, e ripiegò i cartoni che gli fungevano da isolante per proteggerlo dal gelo della pavimentazione.

Avrebbe dovuto cercarsi un altro posto per quella notte. Un porticato, un ponte o comunque qualcosa di abbastanza coperto da ripararlo dalla pioggia.

Prima di andarsene attaccò al muro la favola che avevo appena finito di scrivere. Una fiaba con protagonista un bambino, tale e quale il figlio, e dove c'era anche una principessa, tale e quale la moglie. L'indomani qualcuno nel quartiere gli avrebbe certamente dato un po' di cibo, altri ancora un po' di carta da dare, la maggior parte un po' di soldi. Lui avrebbe avuto del cibo per nutrire il suo corpo, alcuni di loro delle storie per nutrire il loro spirito e la maggior parte delle persone la convinzione d'avere eliminato un po' del disagio che alberga nel mondo, quello legato alla propria coscienza che non ha mai il coraggio d'approfondire il perché delle cose, ma preferisce con un po' di denaro cullarsi dell'idea d'essersi ripulita la propria anima di buon cristiano dal peccato originale. Guardò la facciata monumentale della chiesa che gli aveva fatto da riparo e, prima d'allontanarsi, lesse l'indicazione toponomastica del sagrato: “Piazza Grande”. Sorrise e s'incamminò intonando una popolare canzone dedicata a quella piazza.

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